lunedì 3 gennaio 2011

Stragi fasciste sì, però democratiche!

Il numero del dicembre 2010 della rivista "Theorema - Rivista italiana di sicurezza, geopolitica e intelligence" riporta un interessante articolo firmato "l. t." (Luciano Tirinnanzi?) dal titolo "Golpevoli", nel quale si cerca di descrivere il ruolo dei servizi segreti nella strage di Piazza Fontana, la prima di una lunga e triste serie di stragi generalmente definite "stragi di stato", che furono l'ingrediente principale della strategia della tensione. In realtà nell'articolo non si dice niente di più di quello che di fatto si sa già, tuttavia l'autore dell'articolo ha il merito di affermarlo esplicitamente senza falsi pudori ed in modo avalutativo, astenendosi cioè, per quasi tutto l'articolo, da giudizi morali, come si addice ad un conoscitore dei servizi segreti. Del resto, come ebbe a dire Jurij Vladimirovic Andropov, segretario generale del PCUS dal 1982 al 1984, e soprattutto capo del KGB dal 1967 al 1982, "l'intelligence non prevede il concetto di moralità". Questa citazione serve per una necessaria premessa: è ovvio che chi lavora per i servizi segreti non sia avvezzo agli scrupoli. Vale per tutti, ad ogni latitudine, in ogni epoca, a prescindere dalla forma di stato o di governo cui sono a servizio. L'intelligence non è un ente di beneficenza. Questo è risaputo e quindi non può destare scandalo.

Ma torniamo al nostro articolo. Si parte dall'affermazione di un principio, ispirato da Nixon e Kissinger: quello dell'"Occidente ad ogni costo". Non si può permettere che stati assoggettati, da Yalta in poi, all'influenza statunitense e della Nato passino al campo sovietico. Tale principio verrà applicato al Cile, alla Grecia e, con minore intensità ma uguale efficacia, all'Italia. Per il Belpaese l'applicazione del summenzionato pricipio prevede che si alimenti l'idea della pari pericolosità degli opposti estremismi, con lo scopo non di destabilizzare, ma anzi di rafforzare e rendere inevitabile (perché privo di alternative) il potere democristiano. A costo persino di qualche decina, o centinaio, di morti. Possibilmente evitando colpi di stato, non ben visti, almeno in questa fase, né da Washington né dal Vaticano. Nell'articolo si riporta, a suffragio di questa interpretazione, una affermazione agghiacciante e machiavellica di Massimo D'Alema, presidente del COPASIR: "chi metteva le bombe per difendere la DC era l'ala democratica dei servizi segreti. La dialettica non era sul mettere le bombe o no, ma era sul mettere le bombe per stabilizzare il governo o sul mettere le bombe per preparare un colpo di stato". Dunque niente colpi di stato. Magari se ne agita lo spauracchio per ricompattare il centrosinistra ed isolare il PCI e la "nuova sinistra", magari si lascia intendere che settori dello stato non tollereranno una vittoria elettorale, ancorché conseguita democraticamente, della sinistra marxista. Le vicende cilene, qualche anno dopo, dimostreranno la concretezza di tale minaccia, ma l'obiettivo vero, almeno fino a che il PCI non vincerà le elezioni politiche (caso che non si verificherà mai), è il rafforzamento del potere democristiano, non il colpo di stato. Sarebbe interessante sapere quale fu in tutto questo il ruolo della stessa DC, se vi fu cioè un ruolo attivo di quel partito o se ne beneficiò soltanto, ma di questo l'articolo, salvo citare la reticenza di Giulio Andreotti sull'argomento, non parla. Ci viene in soccorso ancora D'Alema con una sibillina affermazione, riportata però in un altro articolo del medesimo numero della stessa rivista (Oltre le ombre lunghe del passato, a firma di r. b., forse Rocco Bellantone, redattore della rivista): "tutto sommato il merito della Democrazia Cristiana è stato quello di aver contenuto entro i limiti democratici questo tipo di azione che si è esercitata sulla dimensione politica italiana e in forme spesso illegali". Frase ambigua che si presta a più interpretazioni, come si addice in questi casi.

Ad ogni modo, posto che andava evitato il colpo di stato ma che occorreva comunque, per i motivi prima detti, una bella strage terroristica, si arriva così all'organizzazione dell'attentato di Piazza Fontana, 12 dicembre 1969, ormai oltre quaranta anni fa. Il numero due del SID (Servizio Informazioni Difesa), generale Gian Adelio Maletti, esponente dell'ala "democratica" dei servizi (il numero uno, generale Vito Miceli, era invece esponente dell'ala "dura") ha rivelato che l'esplosivo usato per l'attentato proveniva da una base USA in Germania, mentre i corrieri che lo trasportarono attraverso il Brennero erano jugoslavi. L'esplosivo fu consegnato alla cellula di Mestre di Ordine Nuovo e l'attentato fu messo in pratica da quattro uomini della cellula di Padova. Anche se l'autore non lo dice espressamente, si intuisce dal tenore dell'articolo che il copione non deve essere stato molto dissimile nel 1974 (Italicus e Piazza della Loggia, 12 e 8 morti), nel 1980 (stazione di Bologna, 85 morti)e nel 1984 (rapido 904, 15 morti). E che probabilmente, visto che si doveva accreditare la teoria degli "opposti estremismi", anche l'attività delle BR in quegli anni si è "giovata" della "collaborazione" dell'intelligence italiana. E magari, ma questo lo dico io, forse anche la stagione stragistica dei primi anni Novanta (da Capaci a via dei Georgofili) aveva lo scopo di "gestire" e di "indirizzare" in una certa direzione il passaggio dalla prima alla secoda repubblica. Potremmo saperne di più, già oggi o da qui a pochi anni, se il governo Berlusconi non avesse di fatto bloccato la desecretazione del segreto di stato allo scadere dei trenta anni, come del resto ha bloccato l'attuazione dalla riforma dei servizi voluta dall'ultimo governo Prodi, che prevedeva tale misura.

Nel concludere l'articolo l'autore riconosce di non aver aggiunto nulla di nuovo a quello che già si sapeva: il neonazismo italiano di quegli anni era organicamente legato ai servizi segreti e lo stato è coinvolto a pieno titolo nelle stragi dette, appunto "di stato". Si pone però una domanda, che contraddice il tenore avalutativo che ha caratterizzato fino a quel punto l'articolo: in sostanza, si chiede l'autore, è accettabile che settori dello stato per salvaguardare l'ordine democratico, per impedire all'Italia di scivolare sotto l'egida sovietica e per scongiurare il rischio di un colpo di stato (le due cose sarebbero state, rispettivamente, causa ed effetto), siano resi corresponsabili di atti simili? Insomma: il fine (il mantenimento dell'ordine democratico) giustifica il mezzo (le stragi di stato)? Può sembrare una domanda di buon senso da parte dell'autore, dettata da quegli scrupoli morali non previsti, come si diceva prima, dall'attività di intelligence. In realtà è una domanda farisea, ed è già inaccetabile il fatto che ci si ponga una simile domanda. Perché il fine non può giustificare il mezzo, quando il mezzo contraddice il fine. A meno che il fine non fosse diverso da quello dichiarato: ad esempio impedire che il Partito Comunista vincesse democraticamente le elezioni e assumesse un ruolo di governo, impedire che il popolo italiano potesse liberamente scegliere di essere governato dal PCI. Affermare quindi il principio della "sovranità limitata" dell'Italia, paese dove le elezioni sono libere finché vince chi è gradito agli americani (ed in misura minore al Vaticano). In questo caso il mezzo (la stage fascista e/o di stato) sarebbe pienamente coerente con il fine (impedire che si dispieghi la volontà popolare democraticamente espressa, quindi un tacito quanto reale sovvertimento dell'ordine democratico, affinché l'Italia non provasse neppure ad uscire dalla sfera d'influenza statunitense). Insomma: la stagione delle stragi costituì di per sé un golpe di fatto? Questa è la domanda da porsi, stante la caratteristica amoralità dei servizi segreti. E non ci vuole James Bond per capire quale sia la risposta.






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